Data la tua esperienza di docente ed educatore, quanto ritieni che la nuova tecnologia possa essere considerata un rischio se non appropriatamente spiegata ai giovani?
La tecnologia è di per sé uno strumento neutro, il cui valore morale dipende da cosa ce ne facciamo. In medicina ciò è molto chiaro: con gli stessi farmaci possiamo risparmiare la sofferenza e togliere la vita; con le stesse tecnologie di gene editing possiamo generare armi di distruzione di massa quanto curare bambini e adulti da malattie genetiche che non offrono alternativa. Lo stesso vale per quanto riguarda i social network e la comunicazione a distanza. I social network offrono tante opportunità – lavorative, relazionali – quanti rischi: alienazione, contatti nocivi. La comunicazione a distanza permette a pazienti isolati di vedere i propri cari, alle scuole di proseguire il loro lavoro quotidiano, ai pazienti cronici di essere assistiti al proprio domicilio, risparmiando importanti risorse, evitando rischi significativi (mai come oggi, le infezioni) e migliorando la loro aderenza terapeutica e qualità della vita. Allo stesso tempo, se la comunicazione diventa solo e sempre a distanza perdiamo il fondamento relazionale dell’educazione, della società e della medicina stessa: Ippocrate diceva che “la medicina è una lotta a tre fra malattia, medico e malato, dove il medico serve l’arte, ma il malato conduce”. Senza alleanza terapeutica non c’è medicina.
Senza fiducia non c’è società che tenga. Tutto ciò è apparso quanto mai evidente nella corrente crisi epidemiologica e sociale.
Se i giovani hanno la possibilità di sbagliare, possono capire meglio come orientarsi fra questi rischi e queste opportunità, senza confondere soluzioni transitorie con la normalità biologica, psicologica e sociale. Certo parlarne con loro è un ottimo modo per aiutarli a sperimentare facendosi il meno male possibile.
Internet ed i social network sono nati a supporto della conoscenza e del lavoro, oggi il loro utilizzo spazia in altri ambiti, come appunto quello dei servizi. Quale futuro vedi in questo ambito?
Partire dalle esperienze personali semplifica di molto la comprensione di alcuni temi, e contribuisce per questo motivo ad avvicinare le persone. Tante volte ho pensato di cancellare i miei account dai diversi social network oggi a disposizione, e molte volte l’ho fatto. Questo per alleggerire la mente da pensieri e relazioni privi di sostanza e arricchimento reale. Altre volte non l’ho fatto, pensando in effetti proprio alle opportunità lavorative. Credo che anche qui l’antica saggezza greca venga utile.
La giusta misura fra gli estremi (dipendenza e rifiuto, edonismo e astinenza) offre un ottimo punto di riferimento per tenere ciò che arricchisce e alleggerirsi da ciò che appesantisce.
Se un certo social network ti aiuta a far conoscere la tua attività, specialmente laddove questa richieda la partecipazione di molte persone (dalla divulgazione scientifica all’organizzazione di eventi), oggi abbiamo evidentemente un potenziale senza precedenti.
Se viceversa viviamo dell’attenzione che otteniamo dai nostri contatti virtuali, trovo questo elemento molto destabilizzante e pericoloso.
Vi sono persone che nutrono identità virtuali nelle quali finiscono per perdersi, dimenticando che la serenità e la soddisfazione della persona sono obiettivi che richiedono fatica, umiltà, e il necessario confronto con chi le circonda nel mondo reale. Anche qui, dunque, il futuro dei social network dipende da cosa vogliamo farcene, in una relazione strutturale e reciproca con il nostro futuro. Lo stesso vale per la conoscenza: il social network può offrire un punto di partenza utile e accessibile per informarci su determinati temi, ma bisogna educare le persone ad informarsi in modo adeguato, e i social network non ci insegnano a farlo.
Iscriviti al Webinar
Di cosa ti occupi attualmente e quali sono i tuoi progetti di ricerca?
Attualmente svolgo lavoro di ricerca presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, in un progetto interfacoltà Filosofia-Medicina (e in modo particolare, infermieristica) finanziato da Fondazione Cariplo in cui studiamo l’impatto di luoghi, tempi e spazi nell’assistenza alla persona anziana. Al termine del progetto riprenderò la mia attività di ricerca presso la Direzione Scientifica dell’Istituto Ortopedico Galeazzi, dove mi occupo di temi quali health technology assessment, percorsi diagnostico-terapeutici integrati, value-based healthcare e patient-reported outcomes. Si tratta in entrambi i casi di temi fortemente multidisciplinari, che intendonoda un lato ottimizzare l’efficacia dell’assistenza sanitaria sfruttando l’aderenza, le preferenze e le risorse sociali delle persone; dall’altro sfruttare l’assistenza sanitaria per migliorare davvero la loro vita, laddove non bisogna correre il rischio di medicalizzare indistintamente al di là dei bisogni della persona specifica. La medicina non è la soluzione a tutto.
Una definizione che trovo molto convincente della value-based healthcare è proprio “risultati che contano per i pazienti, ai costi più bassi possibili”.
Contemporaneamente svolgo attività didattica presso corsi di laurea triennale, magistrale e formazione post-laurea di area sanitaria, umanistica e manageriale. Dal Febbraio 2018 insegno bioetica all’amato Liceo San Raffaele.
L’associazione Alumni è nata nel 2019, cosa ha significato per te essere tra i primi Alumni coinvolti attivamente nell’organizzazione degli eventi?
Ricordo con fierezza la missione antropologica dell’Università Vita-Salute San Raffaele.Quid est homo, dove la medicina, la filosofia e la psicologia sono strumenti fondamentali e complementari per dare una risposta – mai come oggi – alle nostre esigenze di benessere fisico, mentale, sociale, e spirituale.Sento questa missione come una seconda pelle, probabilmente perché la vita mi ha insegnato duramente ad essere paziente nel senso più autentico ed etimologico del termine.Sopportare, soffrire, comprendere, crescere: in un mondo di pazienti sempre più im-pazienti, laddove il problema non è il fallimento della medicina, ma l’erosione delle sue basi sociali e culturali, rappresentata in primo luogo dalla perdita del senso e del limite.
Mi piace pensare la mia appartenenza all’Associazione come un piccolo contributo per ravvivare la nostra missione.